Intervista alla Dott.ssa Fenoglio del laboratorio di malattie neurodegenerative demielinizzanti

La dott.ssa Chiara Fenoglio lavora con noi dal 2001. Subito dopo aver conseguito la laurea in biologia, infatti, si è unita al gruppo diretto dal Prof. Scarpini e dalla Prof.ssa Galimberti, iniziando il dottorato in Scienze Neurologiche, che ha conseguito nel 2006.

Oggi lavora nel laboratorio di malattie neurodegenerative e demielinizzanti diretto dalla Prof.ssa Daniela Galimberti e si occupa dello studio degli aspetti genetici e molecolari delle demenze e della Sclerosi Multipla.

Conosciamola meglio.

 

Come è maturata la tua decisione di fare la ricercatrice e quando hai deciso che questa era la tua strada?

«In realtà il mio sogno sin da bambina era di diventare medico. Con il passare del tempo e il proseguire degli studi il mio interesse si è focalizzato maggiormente sulla biologia. Mi affascinava tantissimo il cercare di comprendere i meccanismi alla base della vita, non solo del regno animale ma anche di quello vegetale. Da qui mi è venuto naturale dopo il liceo scegliere la facoltà di biologia, dove mi sono poi appassionata alla genetica e allo studio dei meccanismi neurobiologici alla base del funzionamento del nostro cervello. Questo mio ultimo interesse è maturato durante il mio periodo di tirocinio per la tesi di laurea che ho trascorso presso i laboratori di Genomica dell’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR».

 

Quanto è lungo il percorso di studio e cosa vuol dire fare ricerca oggi in Italia?

«Indubbiamente si tratta di un lungo percorso di formazione, che poi in realtà non termina mai. Il continuo studio per tenersi costantemente aggiornati è uno dei lati più affascinanti del nostro lavoro, la continua ricerca e scoperta di tanti piccoli tasselli che messi insieme cercano di dare risposte a domande vaste e complicate. Fare ricerca in Italia è ancora difficile e significa sicuramente anteporre la propria attitudine e passione, almeno per qualche anno, alla sicurezza economica. Benché sia chiaro oramai che un paese avanzato non possa prescindere dalla ricerca scientifica, come anche la pandemia ci ha insegnato, i fondi per la ricerca e le retribuzioni delle varie figure professionali che partecipano alla ricerca scientifica, dal dottorato al ricercatore, sono ancora troppo diversi rispetto a quello che accade ai nostri colleghi in Europa».

 

Quali sono i tuoi principali ambiti di ricerca?

«Mi occupo principalmente di due filoni di ricerca che riguardano le malattie neurodegenerative, malattia di Alzheimer e demenze correlate, e la Sclerosi Multipla. Uno di questi verte sullo studio delle variabili genetiche alla base di queste patologie, spaziando dalla ricerca di mutazioni causative di malattia allo studio di fattori genetici di suscettibilità. Un secondo filone di ricerca si occupa invece dello studio di nuovi biomarcatori precoci di patologia per quanto riguarda le demenze e di biomarcatori precoci di risposta al trattamento per quanto riguarda la Sclerosi Multipla».

 

A che punto è la ricerca nello studio delle demenze e delle malattie demielinizzanti?

«Ad oggi, purtroppo, non sono ancora stati completamente chiariti i meccanismi patogenetici che sottendono queste malattie e quale sia l’evento scatenante il processo patologico.

Nonostante ciò, sicuramente negli ultimi 20 anni abbiamo assistito a grandi progressi, grazie anche all’avvento di nuove tecnologie, sia radiologiche sia strumentali, che hanno permesso di arrivare più velocemente ad una diagnosi clinica. Ad esempio, per quanto riguarda le demenze ora riusciamo a fare la diagnosi molecolare dosando le proteine patogenetiche liquorali che sono già alterate, anche quando la sintomatologia clinica non è così evidente. Per la Sclerosi Multipla, invece, abbiamo assistito negli ultimi anni all’arrivo di numerose terapie. Ricordo che quando ho iniziato ad occuparmi di questa patologia vi erano pochi farmaci e tutti di tipo iniettivo. I farmaci ora a disposizione sono numerosi ed anche di tipo orale e questo ha sicuramente portato ad un miglioramento della qualità della vita del paziente. Rimane però ancora da capire perché alcuni pazienti rispondano meglio a specifiche terapie piuttosto di altri».

 

Qual è il progetto a cui tieni maggiormente?

«Sicuramente, gli studi sul contributo della variabilità genetica nelle patologie che studio sono quelli a cui mi sento più legata. Questo perché la genetica è l’ambito che mi piace maggiormente e di cui mi sono occupata anche quando ho trascorso un periodo del mio tirocinio di dottorato a Cambridge, dove ho studiato il contributo della variabilità genetica nella Sclerosi Multipla.

Sono però anche molto orgogliosa di un secondo filone di ricerca intrapreso recentemente, che studia il ruolo delle vescicole extracellulari nelle malattie neurodegenerative. In particolare, siamo riuscite ad isolare delle vescicole nel sangue che provengono dal cervello e a studiarne il loro contenuto oltre che la loro concentrazione e dimensione. Questo ambito di ricerca è molto attuale e ha delle enormi potenzialità perché il contenuto e la tipologia di queste piccolissime vescicole potrebbe farci capire molto degli aspetti patogenetici delle malattie neurodegenerative e, più in generale, delle malattie che colpiscono il cervello, con un semplice prelievo di sangue».

 

Quanto sono importanti le collaborazioni a livello nazionale e internazionale nella ricerca scientifica e qual è il tuo motto?

«Sono assolutamente fondamentali in tutti gli ambiti della ricerca. Personalmente penso che i nostri lavori più importanti siano nati da collaborazioni con centri esteri o italiani. Unire le diverse competenze è un fattore vincente senza ombra di dubbio. Poi ci sono ambiti, come la genetica, dove non si può prescindere dai consorzi internazionali, attraverso i quali si riesce a raggiungere la numerosità adeguata in termini di casistiche di studio. Anche noi facciamo parte di diversi consorzi, forse il più significativo è il GENFI (the GENetic Frontotemporal dementia Iniziative) per le demenze e il PROGEMUS (PROgnostic GEnetic factors in MUltiple Sclerosis) per la Sclerosi Multipla.

Grazie ai risultati degli studi sulle casistiche basate sui consorzi internazionali si è capito maggiormente il contributo della variabilità genetica per queste patologie.

Quindi il mio motto, anche se forse un po’ banale, non può che essere l’unione fa la forza!»

 

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